STORIE ANFIBIE

 

Una rubrica di racconti personali sulla transizione dall'accademia all'impresa, per sfatare il mito che il PhD sia un pesce buono solo per nuotare nell'habitat universitario: i dottori di ricerca sono anfibi e possono respirare fuori, sulla terraferma del mondo aziendale, proprio come respiravano dentro le acque della ricerca.

 

 

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15
Aprile

Storie Anfibie

EVA RATTI | Astrofisica

15 Aprile 2020

Co-founder di Find Your Doctor

Dopo la laurea in Fisica con specializzazione in Astrofisica presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, Eva ha intrapreso la carriera accademica come ricercatrice presso l’istituto olandese di ricerca spaziale SRON, dove ha conseguito il dottorato nel febbraio 2013. Al rientro in Italia, intenzionata a cercare nuove strade fuori dall’accademia e resasi conto della mancanza di supporto per l’inserimento professionale dei dottori di ricerca, ha avviato nel 2014 il progetto Find Your Doctor in collaborazione con il Consorzio per il Trasferimento Tecnologico C2T. L’iniziativa, senza scopo di lucro e formalizzata come startup innovativa nonché agenzia del lavoro autorizzata, mira ad alimentare la capacità di innovazione di aziende e organizzazioni agendo da anello di congiunzione diretto e personale con chi, venendo da un’esperienza di ricerca, cerca prospettive di carriera nell’impresa.

 

Perché il dottorato e come è stato?

In terza media mi ero già messa in mente di voler diventare una scienziata e studiare le stelle. Dopo la triennale in fisica ero un po’ annoiata, ma, mi dicevo, poteva essere perché di astri non avevo ancora visto manco l’ombra. Così ho fatto la magistrale a indirizzo astrofisico, ma ancora non avevo idea di cosa significasse realmente essere una scienziata, un'astronoma: il dottorato mi sembrava l’unico modo per scoprire se davvero quel lavoro sarebbe stato affascinante come nel mio immaginario.
La scelta di intraprendere il percorso all’estero è stata molto sofferta, ma i professori con cui ho interagito insistevano molto nel dire che un bravo ricercatore il naso fuori prima o poi lo deve mettere: così mi sono detta che, se dovevo provare, dovevo farlo con tutte le scarpe. E meglio prima che poi, finché non c’erano figli o altri vincoli di mezzo.
Inutile dire che non ho trovato nel mondo scientifico proprio lo scenario idilliaco che immaginavo. Ciononostante sono felice di averlo vissuto e il mio è stato, credo, un buon dottorato. Mi è stata data da subito molta responsabilità e fiducia, ci ho messo la faccia, ho avuto autonomia, ho viaggiato tanto in posti splendidi per osservare il cielo. Ho avuto un supervisore giovane e brillante di cui sono stata la prima studentessa, che si stupiva di quanto poco bisogno di essere seguita avessi, ma che quando il bisogno c’era si faceva trovare. Mi ha insegnato a ragionare da ricercatrice, a scrivere nel modo giusto, a utilizzare gli strumenti del mestiere, mi ha insegnato anche tutte quelle idiosincrasie della ricerca che hanno infranto i miei sogni infantili… ma nascondere la testa sotto la sabbia non ha mai cambiato niente e gli sono grata per avermi spiegato quello che altrimenti avrei solo subito.
Non sono stata fortunata con l’insegnamento, poiché mi hanno assegnato un corso che non era di fisica e mi ha costretto a imparare la sera prima per poi spiegare il giorno dopo cose che proprio non mi appassionavano, ma in ultima analisi è venuta buona anche quell’esperienza. Pur avendo avuto vari coautori sparsi per il mondo e colleghi gentili in istituto, sono purtroppo stata molto sola nel mio lavoro, non avendo un gruppo che si occupasse delle stesse cose con cui avere uno scambio assiduo. Questo sicuramente ha rappresentato una perdita, ma anche se solo con il mio supervisor riuscivo ad avere dei confronti scientifici profondi, quelle discussioni sono tra le cose più divertenti che ricordo.

Perché hai lasciato l'accademia?

Un mio professore durante la magistrale era solito dire che quello dell’astrofisico non è un lavoro, ma un gioco, che bisogna smettere di fare quando smette di essere divertente. Il dottorato in Olanda è di quattro anni: mi sono divertita nei primi due, finché stavo imparando metodi e strumenti e ancora non avevo chiaro dove saremmo arrivati. Poi ho smesso di divertirmi. Ho iniziato a soffrire le logiche innescate dal sistema delle pubblicazioni e il loro effetto sul tipo di produzione scientifica che mi era richiesta. Mi sollecitavano a pubblicare cose che per me erano solo pezzetti, di fermare la mia indagine quando qualcosa era fuori dalla mia micro-specializzazione perché ci sarebbe voluto troppo tempo per entrare nel merito: tu pubblica che nel caso da lì vanno avanti gli altri. Volendo vedere il lato luminoso della medaglia, è bello che la ricerca sia un lavoro di squadra su scala globale, ma non raccontiamocela: stiamo producendo una letteratura talmente frammentata che diventa ingestibile e lo stiamo facendo per sopravvivere noi, non per il bene della scienza. Sono un’idealista, mi immaginavo il mondo scientifico come una bolla di menti illuminate il cui obiettivo è l’avanzamento dell’umanità, ma anche gli scienziati devono mangiare e non posso dar torto a nessuno se cerca di garantirsi la pagnotta per l’anno dopo. Ho pubblicato sei paper a primo nome durante il dottorato, ma non sento di aver dato un gran contributo. Per quanto abbia trovato nobiltà di intenti, genialità e correttezza in tanti colleghi, il tutto non mi sembrava ”alto abbastanza”.
Ho poi scoperto che gli aspetti tecnici legati alla strumentazione e alla riduzione dei dati, che occupavano una frazione dominante del mio lavoro quotidiano, non stimolavano la mia immaginazione e il mio interesse. Ricordo riunioni nelle quali i colleghi si esaltavano per questo o quel nuovo satellite e io mi sentivo completamente fuori posto. Ho perso motivazione e mi sentivo costantemente inadeguata.
Ho iniziato a pensare che non fosse giusto per me essere lì, tra le tante persone che competevano per i pochi posti offerti dal mondo accademico, levando spazio a coloro per i quali quel lavoro era davvero il sogno. Pensavo che non avrei mai potuto essere all’altezza dei colleghi che lo facevano per amore e non per forza, anche ammesso che le mie capacità fossero pari alle loro. Fin dai tempi della laurea ho subito la pressione dell’essere immersa in un ambiente dove l’intelligenza media è completamente fuori norma e ho vissuto anni in attesa del momento in cui qualcuno mi avrebbe detto “lei non ha capito niente” svelando finalmente le mie reali stupidità e ignoranza così ben nascoste. Oggi questa è nota come “sindrome dell’impostore”, ma quando per la prima volta ho sentito questo termine ero già al quarto anno con un principio di esaurimento e c’era poca scelta oltre alla fuga. Tuttora se mi si chiede qualcosa di legato al mio background il mio cervello si blocca e vado nel panico. Solo se sono da sola, protetta da qualunque giudizio, riesco ancora a ragionare come una volta.
Stare all’estero poi mi pesava, per me era stata una scelta accettabile solo in quanto temporanea. Nel momento in cui mi è stato offerto un postdoc in un prestigioso istituto negli USA, mi sono resa conto di non volerci andare. E se non ero abbastanza motivata da stare via due anni per prendere una posizione come quella, mi sono detta, voleva dire che non aveva più senso combattere.


Com'è andata la fase di transizione?

Dolorosamente. Nonostante non fossi professionalmente né felice né soddisfatta, volgere le spalle alla carriera di ricerca ha richiesto un grande sforzo da parte mia. Avevo difficoltà a razionalizzare cosa non mi andasse bene e quindi a trovare una giustificazione per quella scelta apparentemente sconsiderata che fosse accettabile per chi mi stava intorno, oltre che per me.
Allora ero solita considerare le emozioni un ostacolo alle decisioni, qualcosa di inaffidabile che andava sempre subordinato alla ragione: ”non sono felice” non sembrava quindi un argomento sufficiente per affrontare il salto nel vuoto che cambiare avrebbe implicato, soprattutto con un percorso poco spendibile come il mio in termini di competenze verticali (chi si occupa di buchi neri se non l’accademia?).
Per cambiare strada ho dovuto cambiare testa, accettare che a volte sentiamo con anticipo quello che capiamo solo dopo, specie per ciò che concerne la nostra felicità. Per mio padre il mio abbandono è stata una delusione che ha impiegato anni a digerire e dargliela mi ha richiesto di crescere molto, di imparare a distinguere ciò che era importante per me da ciò che sembrava importante perché lo era per qualcuno a cui volevo bene. Ma non possiamo vivere la vita degli altri.
Fortunatamente il mio stipendio in Olanda era buono e sono una persona oculata, perciò sono tornata in Italia sapendo di potermi mantenere per un po’ di mesi mentre cercavo un posto. Non avevo nessuna idea di cosa avrei fatto, non sapevo nulla del mercato del lavoro ed ero molto ingenua, ma è stata importante per me la convinzione di avere delle capacità oltre quelle puramente scientifiche, un buon cervello e doti comunicative che non potevo credere fossero applicabili solo alla scienza pura. Ho rifiutato di ascoltare chi mi diceva che non potevo cambiare perché ”noi ricercatori non sappiamo fare nient’altro” e ho buttato il cuore oltre l’ostacolo.
È stata dura. Le agenzie del lavoro non mi hanno aiutata, ho scoperto che nessun intermediario, nemmeno un head hunter specializzato, era disposto a prendere in carico un profilo di ricerca astratto come il mio e che la mia esperienza era arabo per chiunque.
Ho insegnato per un po’ alle superiori, scoprendo che non mi piaceva. Ho creduto di essere adatta a ruoli che oggi so avrei odiato.
Alla fine, grazie a una chiacchierata con un amico d’infanzia di cui sapevo solo che si occupava di innovazione e che speravo mi avrebbe dato qualche consiglio, mi sono ritrovata a fondare quell’agenzia del lavoro per ricercatori che avrei voluto trovare quando è toccato a me reinventarmi un futuro. Un colpo di fortuna, ma anche un esempio di come il network sia quello che spesso salva i PhD nella ricerca di una traiettoria non accademica. Sono stata contattata in risposta a un paio degli annunci per cui avevo inviato la candidatura, ma oramai Find Your Doctor era stato concepito e non sono tornata indietro.


Che cosa hai imparato durante il dottorato che ti è utile oggi?

Tantissimo, ma forse la cosa più importante che mi porto dietro è qual briciolo di arroganza che serve a credere che, qualunque problema mi buttino davanti, se ci penso un pochino una maniera la trovo. Una forma di sicurezza di sé che mi sono formata a furia di vedermi lanciare addosso cose nuove con l’imperativo “Tira fuori qualcosa da qui. Impara. Nuota”. E ho sempre nuotato.
Oggi so che questo approccio si chiama target-oriented, che richiede problem solving non strutturato, resilienza e proattività, capacità di analisi e sintesi: tutte skill che il dottorato forgia come poche esperienze proprio perché la supervisione, anche quando è buona, è blanda e le aspettative rispetto alla velocità di apprendimento e di ragionamento che il dottorando deve saper esprimere sono subito molto alte. Arrangiarsi è legge e il risultato non può essere mediocre. Inoltre, prendere in mano qualcosa di nuovo ed essere il primo a capirci qualcosa è un po’ il punto della ricerca; la maniera per farlo con rigore è il metodo che ci viene insegnato e che uso tutti i giorni, sia che debba aiutare un’azienda a inquadrare i suoi problemi e uscire dai suoi schemi, sia che debba decidere come far funzionare la mia, di azienda.
Ho anche imparato a essere a mio agio con l’inglese, a non aver paura di viaggiare, ho rafforzato la mia già naturale propensione a parlare in pubblico e tradurre contenuti complessi in base al destinatario, a scrivere in maniera tecnica differenziando il taglio a seconda che debba ottenere qualcosa da chi legge (tempo, dati, soldi, poco importa) o descrivere qualcosa in modo chiaro e preciso (la mia analisi di un sistema binario in accrescimento o il progetto di ricerca di un’impresa). Ho imparato ad avere alti standard qualitativi senza diventare ossessiva, perché a una certa il paper o il proposal lo devi sottomettere; a prendermi la responsabilità del mio lavoro, a forgiare idee e conclusioni al fuoco di una spietata auto-falsificazione prima di portarle avanti e a difenderle una volta che l’ho fatto, senza mai dimenticare caveat e possibili fonti di errore (fondamentale per mantenere sotto controllo le aspettative delle aziende con cui lavoro).
Tutto questo mi serve costantemente, non avrei saputo farlo prima del PhD e non credo che sarei diventata così solida su questi aspetti se avessi vissuto gli stessi quattro anni in un contesto diverso.


Ti penti di qualcosa in relazione al dottorato e alle scelte successive?

Non mi pento né di aver fatto il dottorato, né di averlo lasciato. Spesso penso di aver sbagliato direzione fin da quando ho messo per l’ultima volta il piede fuori dalle porte del liceo, ma anche in un altro ambito la ricerca avrei voluto sperimentarla. Viviamo in un mondo che basa le proprie politiche e le proprie scelte su output scientifici o crede di farlo. Oltre a tutto il resto, capire come funziona questa macchina regala strumenti di lettura su quanto ci circonda che a pochi è dato di conquistare.


Quali consigli vorresti dare a chi sta affrontando il momento della transizione?

Ascoltatevi e cercate di astrarre. Non pensate solo agli obiettivi che vorreste perseguire con il vostro lavoro, ma a quello che vi fa stare bene nel presente quando lo fate, alle attività che catturano la vostra mente, tanto che vi ritrovate all’improvviso a scoprire che sono passate cinque ore e non ve ne siete accorti, né siete stanchi (occhio che se non ve ne siete accorti, ma siete stremati, vi ha guidato l’ansia piuttosto che l’amore e non va bene…). Cercare quello che c’è al cuore di quelle attività, cos’hanno in comune. Ve lo dico da fisica: cercate il principio primo. Fatto questo, ogni declinazione di quel principio primo per la quale qualcuno sia disposto a pagarvi è un lavoro papabile per voi.
Sarà banale, ma l’esistenza è fatta di giorni infilati uno dopo l’altro: è bene cercarci qualcosa che non sia un’eterna sofferenza fino all’arrivo, per quanto splendente questo possa essere.
A livello pratico, leggete la guida gratuita ”Dove si va da qui?” di Find Your Doctor*: i miei consigli, assieme a quelli dei miei colleghi, li trovate lì. 

 

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