STORIE ANFIBIE

 

Una rubrica di racconti personali sulla transizione dall'accademia all'impresa, per sfatare il mito che il PhD sia un pesce buono solo per nuotare nell'habitat universitario: i dottori di ricerca sono anfibi e possono respirare fuori, sulla terraferma del mondo aziendale, proprio come respiravano dentro le acque della ricerca.

 

 

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25
Settembre

Storie Anfibie

VIVIANA PREMAZZI | Sociologia

25 Settembre 2020

Imprenditrice e consulente

Laureata in Scienze Politiche e con un master in Gestione dei Conflitti Interculturali e Interreligiosi, Viviana ha un dottorato in Sociologia delle Migrazioni conseguito nel 2014 presso la Graduate School in Social, Economic and Political Sciences dell’Università degli Studi di Milano. Dopo una decina d’anni in giro per il mondo come ricercatrice, consulente e formatrice, a Malta fonda nel 2018 Global Mindset Development, società di consulenza specializzata in servizi di intercultural management, comunicazione interculturale e relocation.

 

Perché il dottorato e come è stato?

Nel 2007 ho svolto uno stage alla rappresentanza italiana alle Nazioni Unite. Come ogni studente di Scienze Politiche toccavo il mio sogno. Toccandolo e vivendolo, diventava più reale mostrando anche i suoi limiti. In particolare, ciò che mi colpì allora era la mancanza di esperti nella rappresentanza e nelle delegazioni italiane, molto diversa dalla situazione dei colleghi tedeschi, inglesi e americani che, insieme ai diplomatici, si presentavano ai vari meeting con un pool di esperti specializzati sui temi oggetto di discussione.
Da lì la mia decisione di formarmi e, attraverso un dottorato, diventare esperta di determinati argomenti così da poter dare un contributo di livello nella presa di decisioni e nell’elaborazione di policy e indirizzi di azione.


Perché hai lasciato l'accademia?

Ho da sempre visto la ricerca, specialmente quella in campo sociologico e delle scienze umane, come un servizio alla società. Purtroppo l’accademia era per me troppo distante dal mondo reale e troppo spesso orientata solo a discussioni teoriche e produzioni scientifiche che non avevano però effettive ricadute sui problemi e i contesti su cui riflettevano. Specialmente nel mio campo, quello della diversità culturale e delle migrazioni, non riuscire a comunicare e diffondere i risultati di certe ricerche e la complessità di certi problemi lasciano il campo a comunicazioni da social media che non fanno altro che inasprire il dibattito.
Unito a questo purtroppo, da donna, nel contesto italiano ho patito molto l’essere perennemente considerata junior, nonostante per età non fossi più così giovane e il dottorato, e non essere riconosciuti per i propri meriti e il proprio valore, ma ritrovarsi costantemente a dover ringraziare per la possibilità di partecipare a un progetto e quindi in una posizione subordinata, al limite della sudditanza, rispetto a figure, molto spesso maschili, con posizioni più solide.


Com'è andata la fase di transizione?

Fortunatamente non ho mai lavorato solo in accademia e non ho mai pensato il dottorato mi permettesse di lavorare solo in accademia. Ho sempre cercato di mantenermi una “doppia vita”, formarmi e ricercare, ma anche agire e creare e partecipare in progetti con il terzo settore, le organizzazioni internazionali e anche l’impresa. Questo mi ha sempre permesso di avere uno sguardo a 360 gradi che andasse oltre sia “solo” ciò che veniva scritto e pubblicato nelle varie ricerche, sia “solo” ciò che si osservava sulla strada.
Nel lavoro che faccio oggi questa è la mia forza perché riesco a mettere insieme le due anime e offrire ai miei clienti analisi teoriche e prospettive concrete di azione.


Che cosa hai imparato durante il dottorato che ti è utile oggi?

Il dottorato è stato per me una grande prova perché ho cominciato senza borsa, lavorando in un centro di ricerca che mi permetteva la flessibilità di poter frequentare e dare gli esami (per noi obbligatori il primo anno); il secondo anno sono stata operata di ernia del disco e questo ha rallentato la fase di lavoro sul campo. Nonostante questo, e poiché per la rinuncia di una collega ho avuto dal secondo anno la borsa, ho subito moltissime pressioni dal coordinatore del dottorato per finire nei tempi stabiliti perché “mi era stata data la borsa”, ancora una volta purtroppo come se non la meritassi. Mi sono quindi organizzata un periodo come visiting in Olanda che mi ha fatto respirare aria nuova e mi ha anche dato la spinta per finire nei tempi stabiliti.
Il dottorato in Italia mi ha mostrato ancora una volta, come già avevo visto nel mondo diplomatico nel 2007, la difficoltà di essere un outsider e di voler, in un certo senso, continuare a essere un outsider, non piegandosi a certe logiche. Quindi probabilmente alla fine mi ha insegnato la resilienza, a essere tenace nonostante tutto, a essere forte nei miei valori e a perseguire la mia strada.


Ti penti di qualcosa in relazione al dottorato e alle scelte successive?

Mi sarebbe piaciuto fare il dottorato all’estero e per questo ho comunque scelto un dottorato in inglese. Se avessi la consapevolezza che ho ora, probabilmente ci proverei con più convinzione e sapendo meglio come muovermi.


Quali consigli vorresti dare a chi sta affrontando il momento della transizione?

Non abbiate paura. Se siete arrivati a questo punto probabilmente è la scelta giusta o il momento giusto. Il mondo è pieno di possibilità, c’è un mondo fuori dall’accademia! E se non trovate il vostro posto, potete sempre crearvelo come ho fatto io e lì l’avventura è ancora più eccitante!