Perché il dottorato e come è stato?
Può sembrare strano o riduttivo, tuttavia risponderei perché no? Non ho mai pensato, una sola volta, durante la mia carriera universitaria di intraprendere una carriera accademica. Poco prima del termine della laurea magistrale, alla luce dei miei risultati in alcune materie mi è stato chiesto dal docente e responsabile del percorso internazionale di valutare la possibilità. Così ho fatto e subito dopo il conseguimento della laurea magistrale ho partecipato all’esame di ammissione, esame che ho superato con successo.
Non ricordo bene le tempistiche (date e localizzazioni temporali non sono il mio forte) ma diciamo che simbolicamente una settimana dopo sono entrato nel gruppo e ho preso posizione in quella che indicavano essere la mia scrivania.
Del mio primo periodo ricordo alcune cose. Il piccolo ingegnere dentro di me, pragmatico e scrupoloso, spinge per fare un elenco puntato, tuttavia la parte concreta mi impone di seguire un format più consono a una struttura ad articolo di giornale. Ricordo tanta confusione. Ricordo la totale assenza di un graduale inserimento. Ricordo chiare gerarchie e avversione per i nuovi entrati.
Eravamo a un passo dalle aule che avevo calcato migliaia di volte, tuttavia mi sembrava di stare in un mondo differente. Tanti gli incontri con il docente, molti dei quali parevano non avere un gran senso per me. Questa apparente sensazione, capii in seguito, risiedeva in realtà in un reale, drastico, cambio di rotta. Non perché non ci fosse un senso, bensì perché la mia forma mentis era orientata in maniera differente. Fino a qualche settimana prima, la mia vita era spaziare da un tema a un altro abbracciando svariati argomenti, nessuno dei quali caratterizzato da un livello di dettaglio così spinto. In quegli uffici invece si trascorreva la maggior parte del tempo a studiare nei minimi dettagli un piccolo particolare, particolare che in un qualunque percorso formativo non avrebbe richiesto che una manciata di secondi.
Passai quindi il primo periodo a comprendere e abbracciare, con qualche difficoltà s’intende, queste nuove modalità, tempistiche, lentezze. La lettura, gli studi di dettaglio, comprensioni di nuovi tool, rappresentavano solo una parte dei compiti a noi richiesti.
L'altra faccia della medaglia era supportare il docente nei corsi di laurea ed esaminare gli studenti in periodo di valutazione. Compresi in quel momento quanto poco provassi piacere a indossare i panni del docente. Troppo buono per esaminare senza sentire su di me quegli occhi supplicanti, troppo breve la distanza dai momenti in cui su quei banchi c’ero io. Fortunatamente c’era chi queste cose le amava, le bramava, così non ho dovuto sforzarmi per troppo tempo di farmi piacere tale attività.
Uno dei motivi principali, forse l’unico vero motivo, per il quale ho scelto di intraprendere il dottorato era la possibilità di trascorrere un anno all’estero. Passato il primo anno tra risa, divertimento, lavoro, tanto lavoro, è arrivato per me il momento di salutare tutti, amici, colleghi, amori, famiglia e partire per Lione, Francia. L’estero non rappresentava una novità, un anno da solo all’estero era tutt’altra storia.
Euforico, agitato, speranzoso, inizio la mia esperienza in terra straniera, consapevole di non sapere una parola di francese, di essere un italiano in Francia subito dopo la sconfitta della Francia in finale ai mondiali per mano, o dovrei dire per piede, dell’Italia, e di avere una madre italiana che cercava malamente di mascherare e superare la disperazione del distacco.
Un loculo per dimora, una scrivania per ufficio, un docente croato per referente, e via. Non ho trovato grandi difficoltà; mi risulta abbastanza semplice modellare i miei comportamenti cercando di trovare il massimo profitto, ovviamente senza intaccare in alcun modo la persona che sono e gli ideali che seguo. Ho seguito un corso per insinuarmi nella lingua francese, ho conosciuto tante persone fantastiche, trovato amore, raccolto storie da ricordare e ovviamente lavorato, lavorato e studiato tanto; l’approccio lavorativo francese-croato era differente da quello italiano, ovviamente.
L’anno è volato e mi è risultato molto difficile tornare in Italia. Come tutte le cose belle, speri sempre durino un tantino di più. A riprova del fatto che il dottorato sia riconosciuto maggiormente all’estero, trovo giusto buttare giù qualche numero. Retribuzione mensile italiana circa 800 euro, retribuzione percepita nel periodo estero circa 1900 euro mensili; e poi ci si chiede come mai scappino tutti.
L’ultimo anno è stato ancora differente, forse più perché ero io questa volta a essere cambiato. La tesi è stata faticosa, ma ancor più faticoso è stato l’addio ai miei colleghi, amici veri. Iniziava l’anno 2010 e il dottorato era terminato.
Sarebbe stato tutto più semplice se durante il dottorato avessi creato importanti relazioni lavorative, una rete di contatti tale da permettermi un ingresso quasi assicurato in azienda o quantomeno una sorta di via preferenziale; tuttavia, così non è stato, e non certamente per mia volontà. Come detto, troppa teoria e troppo poco contatto con le aziende del luogo.
Così cominciò un altro periodo di transizione. Decisi di lasciare tutto e vivere con la mia compagna qualche mese a Londra. È stato certamente un periodo interessante, durante il quale ho cercato lavoro e mi sono riposato, in proporzione molto più la seconda della prima. I mesi passavano e la conoscenza della lingua migliorava, tuttavia gli affetti mancavano e la loro assenza tendeva ad avere un peso sempre maggiore.
Tornammo in Italia e iniziai a cercare attivamente lavoro. A ogni colloquio l’argomento dottorato riempiva dai 3 ai 12 secondi. Dodici quando parlavo più lentamente. Caso volle che Alstom Bologna stesse cercando precisamente una figura come la mia. Questo diede il via a un altro periodo di transizione.
Perché hai lasciato l'accademia?
Mi risulta difficile vederla sotto questa luce. Non ho lasciato l’accademia. Ho terminato il periodo utile relativo al dottorato di ricerca. Pare sia un posto ambito, quindi anche se avessi mostrato il desiderio di restare, non so quanto lontano sarei andato.
Ho bisogno di continua alimentazione, ho necessità di migliorarmi e di raggiungere traguardi impensabili. La vita è troppo corta e il tempo troppo poco per perderlo fagocitati e storditi da tanta lentezza. L’ambiente accademico, non potendo sopperire alla mia continua fame, mi “costrinse” in pratica a prendere l’unica decisione sensatamente plausibile, il mio futuro prossimo necessitava di un drastico cambio di rotta.
So di colleghi che sono restati e hanno portato avanti assegni di ricerca, anno dopo anno, sperando un giorno chissà di ricoprire una cattedra. Lo vedo un po’ come un lavoro a tempo determinato con una minuscola finestra su un futuro poco tangibile.
Mettendo da parte le varie elucubrazioni, ero consapevole quella non fosse la mia strada. L’ambiente universitario, perlomeno quello da me vissuto, rappresenta un ambiente chiuso, ristretto, gerarchico. Viverci implica sottostare a regole, politica, dilungamenti; caratteristiche certo proprie anche di altri ambienti lavorativi, tuttavia a mio parere particolarmente soffocanti in “luoghi” così ristretti.
Il periodo estero non ha fatto altro che avvalorare la mia sensazione. Il mondo è un posto splendido, affascinante. Ci sono troppe cose da vedere, troppe cose da fare, per essere imbrigliato dalle tempistiche offerte da un’ambiente universitario. Certo, questo ambiente regala certezze, sicurezze e una sensazione di protezione, tuttavia traggo maggiore beneficio dal fascino dell’incerto piuttosto che da una quotidianità certa ma miope.
Inoltre, ultimo ma non per importanza, professionalmente parlando non volevo tutto fosse riconducibile alla sola teoria, avevo la necessità di affacciarmi all’aspetto pratico, di fare qualcosa di tangibile, di essere parte di qualcosa che avesse un valore vero, un senso, un significato.
Com'è andata la fase di transizione?
Non è mia intenzione apparire scontato, tuttavia, la vita è già di per sé un susseguirsi di transizioni. Questa è semplicemente una transizione dopo altre e prima di altre, da prendere quindi per quello che è, cioè un’avventura, una possibilità, una scelta.
La materia approfondita e studiata durante il dottorato è stata la chiave che mi ha permesso di essere scelto tra vari candidati come il candidato. La mia importante esperienza nel campo delle vibrazioni mi ha permesso di entrare nel breve periodo in un’importante e conosciuta “famiglia” nel settore ferroviario. Il mio responsabile di allora, che aveva aperto la posizione e che mi aveva scelto, tempo due mesi se ne andò, avendo firmato in altra azienda. Mi trovai quindi ad affrontare un altro momento di transizione.
Ci sono momenti nella vita, a dire il vero la quasi totalità, nei quali non è la conoscenza tecnica o gli anni di studio, o il tempo passato su una materia a farti emergere e vincere le avversità, bensì il carattere. Il carattere si costruisce e si affina affrontando momenti di transizione. Il dottorato me ne ha fatti attraversare diversi, di differente natura. Li avrei affrontati comunque anche se non avessi fatto il dottorato, questo è certo. Sarebbero stati differenti, certo anche questo, ma chi può dire in quali entità. Molto probabilmente oggi sarei differente, sarei altrove.
Se non avessi fatto il dottorato in Acustica e Vibrazioni molto probabilmente non sarei entrato in Alstom, l’azienda che ha governato gran parte della mia vita per oltre 10 anni. Se non avessi fatto il dottorato ora non sarei in una nuova azienda che mi fa stare bene dopo essere stato abbandonato da una terza, causa Covid-19. Forse senza il dottorato la sensazione di benessere l’avrei trovata prima, o forse la starei ancora cercando. Impossibile trovare una risposta a tale dubbio.
Quello che è certo è che sono stati tre anni difficili, ma globalmente felici e senza troppi rimpianti. Probabilmente tre anni sono troppi e probabilmente sto scrivendo queste righe a distanza di troppi anni dal termine del mio dottorato per ricordare appieno sensazioni, malesseri, pensieri e sentimenti.
Che cosa hai imparato durante il dottorato che ti è utile oggi?
Forse una delle domande più complicate a cui rispondere, che si tratti di dottorato o più in generale di qualunque altra cosa. Cosa il dottorato mi ha dato? Il dottorato dovrebbe essere, a mio modo di vedere, un effettivo momento di transizione tra università e lavoro. Un momento nel quale ti discosti dallo studio e ti avvicini al lavoro. Ci dovrebbe essere un chiaro salto, un momento in cui ti fermi e sul volto appare un’espressione di sorpresa. Così non è stato. I panni che indossavo erano gli stessi, identici, di un mondo che pareva non essere ancora finito, come se si trattasse in effetti di un estensione dell’università, come se fosse un esame in più da fare.
Ho spesso immaginato e considerato la mia vita universitaria come un tragitto in bus; tante fermate che mi vedevano scendere carico e affaticato per poi riaccogliermi rigenerato e allegro con una firma in più sul libretto, pronto per essere trasportato fino alla fermata successiva. Il dottorato è semplicemente stata una fermata in più, che mi ha visto scendere speranzoso di trovare un’ambientazione differente, mentre mi ha visto risalire con un’ennesima “firma” in più sul “libretto”.
A domande del genere non mi soffermo mai sui contenuti puramente tecnici; d'altronde a chi interessa quali formule, relazioni matematiche, comportamenti strutturali o vibrazionali ora io sia in grado di padroneggiare. Ritengo sia tutto molto più naturale e interessante ricondurre tutto alla persona che sono diventato.
Come in ogni altra esperienza, o transizione che dir si voglia, si impara sempre di più dalle sconfitte, dalle delusioni, dalle difficoltà. Il dottorato me ne ha riservate parecchie e per questo posso dire che certamente ora sono una persona differente, più equilibrata, meno ansiosa, più resistente e più strana. D’altra parte, come si può studiare materie di Ingegneria Meccanica, fare un dottorato in Meccanica delle Vibrazioni e pensare di uscirne indenni?
Ti penti di qualcosa in relazione al dottorato e alle scelte successive?
Ci sono giorni in cui mi pento di avere fatto il dottorato e altri in cui mi pento di averlo fatto. Scherzi a parte, come ci si può pentire di qualcosa se non si conosce l’altra via, l’altra possibilità? Come posso pentirmi di avere fatto il dottorato se non sono a conoscenza di cosa avrei fatto altrimenti, o dove sarei ora? Per dirla tutta, volendo volutamente estremizzare, se avessi scelto un’altra strada, se avessi preso altre decisioni... esisterebbe anche la probabilità tra le migliaia nel ventaglio che mi vedrebbe sottoterra, non più … vivo.
Quindi probabilisticamente parlando, mi dovrei ritenere fortunato. Non è stata un’esperienza, almeno quella trascorsa in Italia, degna di nota, è vero; non è tra quelle che elencherei tra le prime tre, è vero, tuttavia la parte estera mi ha permesso di padroneggiare una seconda lingua, il francese. Il dottorato mi ha permesso di entrare in una grande solida azienda, guarda caso francese, che sempre guarda caso stava cercando un esperto in vibrazioni. Difficile non notare i segni. Probabilmente ne avrei trovati anche nell’altra vita.
Riassumendo, mi pento e non mi pento, l’importante è fare la scelta migliore con le carte che si hanno in mano in quel momento. Se l’energia che ti sprona risiede nell’ambizione di un continuo miglioramento allora immagino sia difficile, se non impossibile, non immaginare di avere sbagliato qualcosa o di averlo fatto in malo modo. Non pentirsi e avere la convinzione di avere fatto sempre tutto nella maniera corretta credo denoti un’importante mancanza a livello caratteriale, che per piccola che sia ti terrà sempre a una certa distanza dal vero miglioramento. Buttando sul tavolo una delle immortali frasi fatte, seguita a ruota da “ah non ci sono più le mezze stagioni” e preceduta da “ai tuoi tempi io saltavo i fossi per la lunga”, direi che è “sempre facile parlare con il senno del poi”.
Concludendo, posso certamente dire che il dottorato di ricerca mi ha migliorato, sicuramente non perché in grado di padroneggiare complicate relazioni matematiche o in grado di prevedere comportamenti vibrazionali, bensì perché in grado di affrontare e gestire situazioni all’apparenza complicate con calma, obiettività e sicurezza.
Quali consigli vorresti dare a chi sta affrontando il momento della transizione?
Il piccolo ingegnere in me sta fremendo, vorrebbe, insiste per buttare giù qualche elenco puntato; mi trattengo.
Divertiti. Il segreto è sempre divertirsi. Inutile fare qualcosa che non produce appagamento o divertimento. Non avrebbe senso farlo.
Ricordati che la transizione è ovunque e al termine di questa se ne presenterà una differente. Escine sempre modificato, migliorato o peggiorato, non importa, ma escine cambiato. Se non ti ha lasciato niente, è come se non fosse mai avvenuta, in pratica hai perso tempo.
Ricordati di non darle più importanza o più peso di quello che merita. La transizione successiva apparirà ancora più complicata. Passate altre quattro transizioni ti guarderai indietro e riderai di come ti fossi preoccupato per qualcosa di così semplice o di così poco conto.
Divertiti e segui il tuo istinto e lascia stare tutti gli altri, a meno che non si tratti del piccolo ingegnere, o del piccolo architetto, o del piccolo scienziato, o del piccolo chicchessia dentro di te.