STORIE ANFIBIE

 

Una rubrica di racconti personali sulla transizione dall'accademia all'impresa, per sfatare il mito che il PhD sia un pesce buono solo per nuotare nell'habitat universitario: i dottori di ricerca sono anfibi e possono respirare fuori, sulla terraferma del mondo aziendale, proprio come respiravano dentro le acque della ricerca.

 

 

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19
Novembre

Storie Anfibie

STEFANIA DONZELLI | Scienze Sociali

19 Novembre 2020

Educatrice infantile e formatrice

Laureata in Scienze Politiche, con un master in Development Studies, Stefania ha conseguito un dottorato in Scienze Sociali nel 2018 presso l'International Institute of Social Studies de L'Aia (Erasmus Universiteit Rotterdam). Nel tempo, Stefania ha lavorato nel campo della cooperazione, della ricerca e dell'insegnamento in Italia, Messico e Olanda. Attualmente lavora come accompagnatrice di asilo nel bosco e come formatrice sulle tematiche della pedagogia in libera immersione nel selvatico.

 

Perché il dottorato e come è stato?

Ho scelto di fare un dottorato per piacere e per convinzione politica. Mi appassiona fare ricerca, mi diverte raccogliere nuove informazioni e soprattutto mi piace scoprire punti di vista inaspettati. La ricerca mi interessa anche come pratica politica nel senso di consuetudine a farsi domande sul perché le cose siano così come sono e su come potrebbero essere diversamente.
Come è stato fare il dottorato? In poche parole direi che mi ha dato la possibilità di migliorare i miei strumenti di ricerca e critica. Tra gli aspetti più arricchenti dell'esperienza in università, ci sono certamente gli incontri e i confronti presso l'istituto dove facevo ricerca: l'International Institute of Social Studies de L'Aia. Qui, la maggior parte di insegnanti, ricercatori e studenti porta la prospettiva del Sud globale nello studio dei processi di trasformazione sociale. Questo è stato uno stimolo prezioso a decostruire il mio eurocentrismo interiorizzato.


Perché hai lasciato l'accademia?

Durante il periodo del dottorato, ho sperimentato che le richieste di produttività tipiche della carriera universitaria portano con sé il rischio di fare ricerca per legittimarsi nel proprio ruolo piuttosto che per mettersi in relazione con il resto della società. Un esempio è il linguaggio di nicchia che caratterizza la produzione accademica: mentre risponde ai requisiti dei dipartimenti e delle riviste specialistiche, limita la circolazione e la discussione delle idee al di fuori dell'ambito accademico.
Con questo non voglio scadere in una posizione anti-intellettuale. Penso che la teoria abbia un potenziale liberatore enorme e che l'università abbia contribuito allo sviluppo di questo tipo di sapere: un esempio sono i cosidetti area studies portati in accademia dalle lotte delle minoranze. Credo piuttosto che vadano scelti con cura i luoghi da cui prendere parola sulla base dei propri obiettivi.
Un bell'articolo di Stefano Portelli, sulla possibilità di fare politica attraverso la ricerca, parla della rilevanza di portare la conoscenza dall'alto verso il basso, dal centro alla periferia, dall'accademia ai movimenti sociali. Diciamo che lasciare l'università è stato per me un modo per portare altrove gli strumenti di ricerca costruiti nel dottorato e utilizzarli per rispondere a bisogni concreti.


Com'è andata la fase di transizione?

La transizione verso un lavoro esterno al mondo accademico è iniziata già quando facevo il dottorato ed è venuta da sé. A metà percorso sono diventata mamma e ho iniziato a interessarmi di educazione e pedagogia. Quando, insieme al mio compagno, ho scelto il contesto educativo da proporre ai nostri figli, mi sono ritrovata nei principi e nei valori della pedagogia del bosco. Questo approccio riconosce il bambino come competente nel guidare i propri percorsi di apprendimento, a patto che si trovi in un ambiente ricco di possibilità e con adulti capaci di riconoscerne i bisogni e sostenerne gli interessi.
Questa pedagogia viene messa in pratica in contesti molto diversi in Italia: gruppi informali, associazioni, servizi, in alcuni casi anche scuole. Noi abbiamo scelto i progetti dell'associazione Fuori dalla Scuola che si trova a Missaglia, in Brianza. Qui, i genitori sono coinvolti nell'organizzazione anche sotto il profilo educativo e, per questo, sono impegnati in un costante lavoro di ricerca, formazione e auto-formazione, ma anche confronto, consapevolezza e messa in discussione.
Da questa esperienza è poi nato il gruppo di lavoro "Pedagogia del Bosco | Ricerca e Formazione," fondato da Selima Negro e Alessandra Fossati, a cui mi sono unita da due anni. Qui, sento di trovarmi in una posizione produttiva per fare ricerca. Da una parte, la pratica educativa quotidiana permette di elaborare domande di ricerca centrate sui bisogni deǝ bambinǝ che man mano emergono. Dall'altra parte, i corsi di formazione consentono di divulgare i frutti della ricerca, che possono così essere discussi e integrati nella vita quotidiana di tanti genitori, educatori e insegnanti.


Che cosa hai imparato durante il dottorato che ti è utile oggi?

Grazie all'esperienza del dottorato ho imparato a integrare la curiosità in un metodo di indagine efficace. Nella pratica questo ha significato imparare a riconoscere e costruire domande di ricerca generative, rilevanti e coerenti con gli obiettivi e i metodi di investigazione scelti. A livello emotivo, il dottorato è stato una palestra per imparare a soffermarmi sulle contraddizioni che incontravo, accettare il disagio che producevano e prendermi il tempo di esplorarle.
Il bello è che ho scoperto che nel bosco queste competenze sono tutte molto utili! Infatti, l'adulto che accompagna ǝ bambinǝ è, prima di tutto, un ricercatore: osserva partecipando e registra i dati raccolti nella documentazione; avanza domande sui significati di ciò che osserva e produce analisi e interpretazioni che triangola, cercando il confronto con ǝ bambinǝ stessǝ, le famiglie, altri professionisti; valuta e decide quali azioni si possano intraprendere per sostenere il benessere e gli apprendimenti deǝ bambinǝ e, infine, ritorna a osservare. In questo processo, la pratica dell'auto-riflessività – tanto importante nella ricerca qualitativa – sostiene l'adulto a riconoscere la propria prospettiva particolare e parziale, fatta anche di aspettative, automatismi e proiezioni, al fine di rimanere centrato nella relazione con ǝ bambinǝ.


Ti penti di qualcosa in relazione al dottorato e alle scelte successive?

Non mi pento di niente. Penso che, per le esperienze vissute e la persona che sono, non avrei potuto intraprendere un cammino diverso. Piuttosto sono curiosa delle future evoluzioni di questo percorso!


Quali consigli vorresti dare a chi sta affrontando il momento della transizione?

"Owning your own story" è un'espressione inglese che si potrebbe tradurre letteralmente con "appropriarsi della propria storia", nel senso di riconoscere il proprio percorso di vita, in tutte le sue sfaccettature, e accoglierlo come un elemento importante per il proprio presente e il proprio futuro. In altre parole, si potrebbe dire che sapere da dove si proviene aiuta a scegliere dove andare.