STORIE ANFIBIE

 

Una rubrica di racconti personali sulla transizione dall'accademia all'impresa, per sfatare il mito che il PhD sia un pesce buono solo per nuotare nell'habitat universitario: i dottori di ricerca sono anfibi e possono respirare fuori, sulla terraferma del mondo aziendale, proprio come respiravano dentro le acque della ricerca.

 

 

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04
Dicembre

Storie Anfibie

LUCA RUSSO | Scienze Motorie

04 Dicembre 2020

Libero professionista

Di origine abruzzese, dopo la laurea magistrale in Scienze Motorie ha intrapreso il percorso di dottorato occupandosi di analisi del movimento. Dopo il dottorato, concluso nel 2011, ha proseguito gli studi con un master in Posturologia e altri due percorsi di laurea triennali, Tecniche Ortopediche e Podologia. Nella sua carriera, ha collaborato con l’Istituto di Medicina e Scienza dello Sport del CONI, la Federazione Italiana Pallacanestro, la Federazione Italiana di Atletica Leggera e ha fornito consulenza per Technogym, azienda leader nella produzione di attrezzature per l’allenamento, oltre ad aver insegnato in università e ad aver dato alla luce 4 libri. Dal 2015 è formatore e autore per ATS - Giacomo Catalani Editore e dal 2012 è consulente tecnico-scientifico per Sensor Medica. Attualmente svolge in autonomia la propria pratica professionale occupandosi di biomeccanica, podologia e posturologia.

 

Perché il dottorato e come è stato?

Il dottorato di ricerca è stata l’esperienza formativa più bella svolta nella mia lunga carriera universitaria. Alle spalle ho tre triennali, una magistrale, un master di primo livello e un corso di perfezionamento, ma i tre anni di dottorato di ricerca sono e resteranno indimenticabili. Ho fortemente voluto svolgere un percorso di dottorato perché lo ritenevo un completamento accademico di importanza fondamentale per poter approfondire le tematiche di mio interesse.
Il percorso di dottorato non mi ha insegnato solamente la metodologia della ricerca ma mi ha concesso di apprendere dei metodi di valutazione che ancora oggi applico costantemente nella pratica lavorativa quotidiana. Mi ha concesso di capire cosa significa aggiornarsi scientificamente, aspetto questo che oggi, specialmente nella mia pratica da professionista e formatore, è fondamentale e necessario. In ultimo e non certo per ordine di importanza, mi ha concesso di conoscere moltissime persone di altissimo livello con le quali ancora oggi, dopo molti anni, ho degli scambi professionali e scientifici molto proficui.


Perché hai lasciato l'accademia?

Solitamente dico che non sono io che ho lasciato l’accademia, ma è l’accademia che mi ha lasciato andare. Il che può essere interpretato in maniera bivalente: o come il genitore che lascia che il figlio viva la propria vita, oppure come qualcuno che si è lasciato scappare un’occasione. Scherzi a parte, in realtà il mio rapporto con il mondo accademico non è mai finito del tutto e allo stesso non è mai cominciato in maniera strutturata: un rapporto anfibio anche quello.
Al termine del dottorato ho continuato a collaborare con il mondo accademico attraverso dei contratti di insegnamento, arrivando ad avere docenze in 8 atenei diversi tra corsi di laurea triennali, magistrali e master di primo livello. Un rapporto discontinuo e non strutturato che richiede però la preparazione delle lezioni, la presenza agli esami, la cura delle tesi di laurea ecc. Questo rapporto anfibio mi ha permesso di coltivare la libera professione, tanto che l’insegnamento stesso rientra tra le mie attività professionali.


Com'è andata la fase di transizione?

La fase di transizione tra il dottorato e la vita professionale è stata caratterizzata sicuramente da un aspetto più di altri: l’incertezza. Avevo improntato il mio percorso di dottorato sull’acquisizione di competenze spendibili fuori dall’ambito accademico e meno sulla produzione scientifica, infatti le pubblicazioni sono arrivate (purtroppo) dopo il dottorato. Questa scelta mi penalizzava fortemente per cercare di restare nel mondo accademico, perché non ero in possesso dei requisiti per partecipare ai concorsi. L’incertezza scaturiva dunque dal dubbio sulla validità della scelta fatta nel mio percorso di dottorato: non avevo le carte in regola per provare a restare nel mondo accademico e allo stesso tempo, sebbene ricco di conoscenze e competenze, non avevo esperienza lavorativa.
Ricordo quindi che in quel periodo di incertezza e dubbi ricominciai dalle attività che svolgevo prima del dottorato e nel frattempo capii che la libera professione era l’unica strada possibile per me e non avevo interesse a diventare un dipendente. Capitò la possibilità di acquisire delle quote di una Srl, feci un mutuo (che ancora oggi sto pagando dopo diversi anni) e investii in questa impresa. L’investimento fu davvero importante in termini economici e con gli anni scoprii, a mie spese, che quella non era l’attività che in realtà volevo svolgere e così ho continuato con la libera professione che fortunatamente non ho mai abbandonato a causa della mia testardaggine e del mio rapporto di amore-odio con la mia partita IVA.


Che cosa hai imparato durante il dottorato che ti è utile oggi?

L’elenco sarebbe lunghissimo, non è una frase fatta o retorica ma è la pura verità. Dal mio tutor ho imparato la precisione e la cura del dettaglio. Dagli esperimenti in laboratorio ho imparato l’organizzazione, la sequenzialità delle fasi di lavoro. Dall’analisi dei dati ho imparato il valore del tempo. Dallo studio della letteratura ho imparato la dedizione e la ricerca dell’informazione, approfondendo l’argomento senza fermarsi alla prima impressione. Dalla scrittura degli articoli ho imparato la pazienza. Ho imparato a usare strumentazioni che ancora oggi utilizzo nella pratica quotidiana. Ho imparato a studiare e comprendere come funziona uno strumento prima di decidere se usarlo o meno. Ho imparato a distinguere tra le misurazioni utili e quelle usate per fare scena. Ho imparato a scrivere un report e a dare l’informazione giusta al momento giusto. Ho imparato una mentalità che solo l’accademia può dare.


Ti penti di qualcosa in relazione al dottorato e alle scelte successive?

No. Di nulla. Penso che sia sempre semplice con il senno di poi guardare indietro e dire che tutto poteva essere fatto meglio. Ovvio. Peccato che non si pensa mai che potenzialmente non solo si poteva fare meglio, ma si poteva fare anche molto ma molto peggio. Per cui non ho alcun pentimento o rimpianto o rimorso.
Avrei sicuramente potuto scrivere di più durante il dottorato e produrre più articoli e prodotti scientifici ma questi sono arrivati ugualmente con il tempo e forse sono arrivati anche con una maturità diversa. Per cui questa è una semplice osservazione ma nulla di cui pentirsi. Non mi pento neanche dell’investimento molto oneroso fatto per l’ingresso nella Srl dalla quale poi sono uscito; certamente avrei dovuto gestire molto meglio la situazione ma ero totalmente inesperto. Del resto ci sono momenti della vita che vanno presi per come vengono, vissuti e poi elaborati. Leccarsi le ferite è lecito ma se si pensa che quelle ferite sono servite a comprendere la propria strada, allora non sono state vane.


Quali consigli vorresti dare a chi sta affrontando il momento della transizione?

Non credo di essere la persona giusta per dare consigli e soprattutto penso che ogni persona viva queste fasi in maniera diversa, ci sono troppe variabili da controllare. Più che un consiglio però posso condividere quello che è stato il mio atteggiamento nella fase di transizione, ma ovviamente questo non ha la pretesa di essere un consiglio universale.
Io mi sento sempre in continua transizione, ecco la mia ricetta. Ho scelto la libera professione con tutti i limiti, i dubbi, le paure e le incertezze del caso ma è sicuramente quanto di più simile alla ricerca, svolta però fuori dall’accademia. Sono sempre alla ricerca di qualcosa e per questo mi sento sempre in fase di transizione. Un po’ come Bruce Banner, il cui segreto per gestire la rabbia e trasformarsi in Hulk è proprio quello di essere sempre arrabbiato.