Perché il dottorato e come è stato?
Come molti, scelsi di fare il dottorato per passione. Sono sempre stato una persona curiosa, forse di troppe cose: dopo le superiori mi ero iscritto a Filosofia, ma durante un seminario sull’intelligenza artificiale mi sono innamorato dell’idea di modellizzare l’intelligenza e mi sono spostato a Matematica. Ho fatto la magistrale a indirizzo biomatematico, con una tesi sulla modellistica di reti in natura; finita quella, ho attivamente cercato un dottorato che mi consentisse di continuare a esplorare ciò che mi intrigava e ho trovato questo professore di Roma, biologo, che lavorava con un team di scienze cognitive giapponese sulle catene di trasporto create dalle muffe. Cercavano, per un nuovo progetto su un lichene, un dottorando che ne sapesse di modelli, ma facevano fatica a trovarlo per via del periodo all’estero, che doveva essere in Lapponia... E niente, io il freddo non lo soffro, legami sentimentali non ne avevo, ho fatto il concorso e sono partito per quella che è stata una delle esperienze più totalizzanti, appassionanti e anche sfidanti della mia vita.
Ero l’unico del mio team con le mie competenze, perciò da subito ho sentito fortemente la pressione di essere “l’esperto di modelli” anche se quest’esperienza non era poi un gran che. Mi sono dovuto cercare qualcuno a cui chiedere per le mie cose, mentre il supervisor mi aiutava a mettermi in pari sulla biologia... non so quanta letteratura ho macinato! E ho dovuto imparare a comunicare con persone di estrazione e cultura diversa dalla mia, a parlare con questi biologi lapponi e giapponesi che all’inizio mi guardavano come se fossi un alieno!
A metà del secondo anno, poi, sono partito per il periodo all’estero e lì mi sono trovato a fare raccolta dati sul campo come non avevo mai fatto, “hands on the job” al freddo e al gelo con questi licheni che crescevano nei posti peggiori! Per fortuna, il team di elfi con cui mi sono trovato a lavorare, due post-doc e una dottoranda come me, mi ha aiutato tantissimo!
Il nostro supervisor locale, invece, inutile. Addirittura non l’ho mai visto. Sui nostri articoli compariva un prof. S. Schonliau, visiting professor in università di mezzo mondo e affiliato a nessuna, sempre a ultimo nome su lavori con H-index da paura ed esperimenti che avevano del miracoloso... ma quando chiedevo di incontrarlo, gli elfi nicchiavano sempre. Mi dicevano di non preoccuparmi, che mi avrebbero seguito loro. Lì per lì l’ho sofferta, mi sentivo irrilevante. Poi, ovviamente, ho capito perché.
Perché hai lasciato l'accademia?
Mah, un po’ di questo e un po’ di quello. C'ero entrato con grandi ideali, che in parte sono rimasti delusi da un ambiente che, ho scoperto, aveva priorità diverse dalle mie. A me interessava il risultato scientifico, la scoperta, raggiungere qualcosa che facesse la differenza per il mondo. Avevo in mente che un giorno avrei rivoluzionato i trasporti con le mie scoperte, che avrei preso la natura come esempio per dare i natali a una nuova tecnologia che la rispettasse, ma ero lontano anni luce. Un giorno, guardavo il sole riflettersi sulla cupola innevata del nostro laboratorio e all’improvviso mi sono detto: ma che cosa sto facendo? Era tutto troppo lento e farraginoso per me, troppo astratto. Quel giorno ho capito che, se volevo vedere nel corso della mia vita l’effetto positivo delle mie azioni, dovevo andare altrove.
Vi chiederete allora perché ho fatto il post-doc. La risposta è che, da un lato, il modello sui licheni non era ancora finito e non mi piace piantare le cose a metà; dall’altro, l’Università della Lapponia mi propose un progetto applicato, finanziato con bando europeo, in collaborazione con un'organizzazione privata che lo avrebbe concretamente messo in pratica: si trattava dello sviluppo di un innovativo software di logistica che mirava a ridurre i consumi e l’impatto ambientale delle consegne attraverso un’ottimizzazione ferrea delle rotte, per il quale avrei potuto mettere in pratica le mie analisi sulle amebe prima e sui licheni poi. Il nome del progetto, che divenne poi il nome del software, era Routing Universal Delivery Operations by Lapponian Provider Host: in breve, RUDOLPH.
Potrei dire, quindi, che il post-doc nel mio caso non è stato tanto un voler rimanere, quanto un cogliere l’occasione per mettere un piede fuori dalla porta e vedere com’era l’aria di là; che era sicuramente fredda, visto che avrei dovuto restare ancora in Lapponia, ma tutto sommato sono sempre stato un cittadino del mondo, ho sempre adorato viaggiare e l’Italia non mi mancava poi troppo. Avevo persino adottato una renna.
Com'è andata la fase di transizione?
Il periodo tra la fine del post-doc e l’inizio del mio primo lavoro non è stato facile, perché mi sembrava veramente che al mondo non esistesse il posto giusto per me. Non che non ci fossero annunci di lavoro a cui avrei potuto candidarmi: con le mie conoscenze di logistica e sviluppo software, qualche parola chiave l’avevo. Mi chiedevo però perché queste aziende avrebbero dovuto andare a prendere un matematico biologo di 32 anni invece che un qualunque laureato in Informatica, più giovane e meno costoso e, d’altra parte, se io mi sarei sentito bene ad abbandonare tutto il mio bagaglio, ritirandomi a usare solo quelle poche competenze tecniche che gli annunci richiedevano. Così finivo per non candidarmi mai, o per farlo con una scarsità di motivazione che i recruiter sicuramente annusavano lontano un miglio e per la quale non mi sceglievano. Più non venivo scelto, più mi frustravo, mi convincevo di essere “non richiesto” dal mercato, fallito, sbagliato... e più non venivo scelto.
Ebbi il buon senso allora di cercare aiuto rivolgendomi a una psicologa con cui avevo fatto amicizia in Lapponia, tutt’oggi una delle mie più strette collaboratrici: è anche lei ricercatrice, dottorato con tesi sulla motivazione. Lei mi spiegò che mi stavo fissando sulle competenze tecniche, ma in verità erano i miei valori ad aver sempre guidato le mie scelte, da quella di entrare in accademia a quella di lasciarla. Erano quelli, combinati con i miei interessi e le mie competenze, che dovevo utilizzare per orientarmi.
Ritrovai allora coraggio, cominciai a selezionare le aziende sulla base della vision e della mission che riportavano sui loro siti e trovai anche qualche buon contatto, ma circa sei mesi dopo la fine del post-doc, fu proprio l’azienda lappone con cui avevo fatto ricerca a ricontattarmi, proponendomi un posto nell’R&D per l’industrializzazione di RUDOLPH. Credo quindi di essere stato fortunato, perché alla fine è stato il lavoro a trovare me. Mi do però anche il merito di essermi ascoltato e aver capito che dovevo cambiare strada prima di essere sull’orlo del baratro. La scelta di espormi gradualmente con quel post-doc ibrido ha sicuramente agevolato la transizione, permettendomi di espandere il mio network fuori dai soli contatti accademici.
Che cosa hai imparato durante il dottorato che ti è utile oggi?
Prima di tutto, la sindrome dell’impostore. Ho passato anni a sentirmi inadeguato, a dover prendere decisioni che sentivo ben oltre la mia seniority, di cui fingevo di essere sicuro, ma su cui in realtà avevo mille dubbi. Mi aspettavo sempre che alla fine si sarebbe rivelato tutto sbagliato, che qualche biomatematico serio avrebbe letto i nostri lavori e scritto al mio supervisor chiedendogli chi fosse l’idiota che gli faceva i modelli. Il giorno della mia assunzione in questa organizzazione, però, ho finalmente incontrato il famoso supervisore assente, che qui è il CEO. Lui mi ha detto che ognuno di noi è smisuratamente ignorante, che chiunque prenda una decisione è sempre un impostore, perché non si basa mai su una certezza, ma sul meglio a cui riesce ad arrivare. Che me lo dicesse lui, con gli anni che ha vissuto, con le epoche che ha visto... be', mi ha colpito. Fu l’unica volta che lo vidi, è stata quasi un’esperienza mistica.
Così, me la sono portata a casa e oggi mi serve tanto, anche perché, diciamocelo, io sono un impostore non solo metaforicamente: tutti quelli che credono in Babbo Natale si aspettano che io sia San Nicola, o Nicholaus... ma lui non è più qui, fa il CEO in smart tworking da centinaia d’anni... e io sono solo un comune mortale, un povero ex ricercatore che si è distinto nell’R&D per le sue competenze trasversali, per le quali, francamente, devo solo ringraziare le difficoltà avute facendo ricerca!
Ho sempre avuto una buona propensione all’ascolto e alla comunicazione, ma l’aver vissuto il dottorato a cavallo tra discipline e continenti mi ha costretto a rafforzare molto questi aspetti, mi sono abituato a trovare i punti di contatto oltre le differenze, a riconoscere gli ostacoli per poter lavorare insieme. Già quando sono entrato l’R&D qui era contaminata tra settori, ma oggi che ho preso io la leadership, ho esasperato la cosa ancora di più.
Ovviamente, ho il team alle mie dirette dipendenze, che costruisce le rotte, imparando dalla natura, ma abbiamo poi gruppi sulle cose più diverse. Gli ingegneri e i fisici mi lavorano sulla slitta, perché francamente non è pensabile che io possa girare tutto il mondo in una notte con un mezzo ordinario. Per adesso non posso dirvi esattamente come funziona, ma prima o poi rilasceremo anche questa tecnologia alle agenzie spaziali mondiali, come facciamo spesso, come regalo di Natale.
Ho poi una serie di esperti di Big Data, Information Retrieval e Machine Learning da tutti i settori perché, senza un decision support system per l’estrazione semi-automatica dell’informazione, l’afflusso di letterine che arriva in pochi giorni non lo gestiamo più! Tutti lavorano a stretto contatto con i linguisti e gli psicologi, che costruiscono i sistemi di valutazione della motivazione nelle letterine, per distinguere automaticamente le “buone” dalle “cattive”; gli antropologi e sociologi, invece, mi modellizzano le influenze culturali e l’effetto del marketing sulle richieste, per portare ai bambini non quello che credono di volere, ma quello che vogliono davvero. Così promuoviamo il green, le produzioni locali e solidali, senza mai deludere. A questo proposito, non posso dimenticare il team della comunicazione, che oggi coi social fa dei lavori finissimi, perché c’è sempre controversia sulle nostre attività e sulla mia figura, tra tradizione e accuse di esserci venduti alle multinazionali. Certo, se la gente sapesse chi è qui la proprietà, certe cose non le direbbe... ma lo stile dirigenziale in queste vecchie organizzazioni, si sa, è un po’ assenteista. Diciamo che la libera iniziativa è quasi un dogma. Anche in questo, l’assenza di una figura senior da seguire negli anni di ricerca mi ha fatto le ossa, mi ha dato la forza di prendere in mano oggi le briglie di questa grande macchina. Come ogni ricercatore che abbia fatto un dottorato serio, non temo la complessità e sono stimolato dalla costante ricerca di sistemi migliori per raggiungere il risultato.
Mi è stato detto che in questo ho portato veramente un valore aggiunto rispetto al mio predecessore, che aveva una storia molto diversa. Il mondo si complica, il culto del Natale si diffonde anche all’Est, la gente è sempre di più, le case da raggiungere crescono, i desideri si confondono: ma noi non abbiamo paura, la prendiamo come una sfida!
Inoltre, il dottorato mi ha insegnato a essere resiliente e auto-motivato, a trarre soddisfazione dal raggiungimento dei miei obiettivi anche quando non c’è un riconoscimento: lavorare per il gusto di un lavoro ben fatto, anche se poi nessuno ti stende un tappeto rosso. E mai, mai perdere il contatto con i dati, con la concretezza del proprio lavoro, altrimenti si va a disquisire del nulla. Per questo vado in giro io con la slitta, anche se potrei benissimo delegare. Viaggio costantemente da una sede all’altra del gruppo, Lapponia, Canada, Alaska, Norvegia e Polo Nord, dove abbiamo i server, ma anche nei magazzini dislocati sulle nuove rotte, per vedere come se la passano i dipendenti laggiù. Poi, il 25 dicembre, vado a fare a mano tutte le consegne, così testo la slitta e il sistema. Voglio che i miei abbiano l’esempio di un leader che si sporca le mani, mostrargli che questo, come quello della ricerca, è un lavoro per cui ci si sacrifica, perché ci si crede.
Ti penti di qualcosa in relazione al dottorato e alle scelte successive?
Non direi, no. Ho vissuto un’esperienza ricca, che mi ha insegnato tanto e che uso tutti i giorni, anche se muffe non ne studio più. Immagino che pochi si aspetterebbero che Babbo Natale sia un biomatematico, eppure eccomi qui, a dimostrare quanto trasversale possa essere la formazione di un ricercatore.
Ho avuto il coraggio di lasciare la mia terra, scontentare chi la riteneva una follia e seguire la mia passione, ma anche di lasciarla andare quando mi sono accorto che l’abbaglio di quel primo amore rischiava di portarmi contro un muro. Ho scoperto che il mio voler fare ricerca era solo una possibile manifestazione di un bisogno più generale, meno evidente, ma più profondo. Mi piaceva fare qualcosa di insolito e mi piaceva impegnarmi per migliorare il mondo, tutte cose che ora faccio con ancor più soddisfazione. Credete a me, che qualcosa ne so: non sempre il regalo più bello sta nella carta che luccica!
Quali consigli vorresti dare a chi sta affrontando il momento della transizione?
C’è una cosa che impari, quando entri nei camini: se ti ritrovi a un certo punto in un posto buio e stretto, non vuol dire che ci resterai per sempre.
Se vi sentite oppressi, probabilmente siete troppo grandi per lo spazio in cui vi siete infilati. Non abbiate allora paura di aprirlo, o di cercarne uno diverso. Guardate i bambini, come si divertono nel provare a camminare anche se continuano a cadere: sanno d’istinto di avere il potenziale per farcela, anche se ci vuole un po’ per preparare il corpo e trovare la strategia giusta. Potete fare lo stesso: sperimentatevi, contaminatevi, sbagliate, così capirete che cosa vi piace davvero. E guardate come scrivono i più piccoli nelle loro letterine, come chiedono senza pudore! Questo è il vostro momento per desiderare! In una rottura, c’è uno spazio che si apre: prima di riempirlo di angosce, prima di andare a pietire un lavoro che non vi interessa, prima di accontentarvi, fermatevi un secondo a considerare che cosa, ad oggi, vorreste davvero! Prima di fare i conti con le difficoltà da superare, provateci a scrivere questa lettera a Babbo Natale!