STORIE ANFIBIE

 

Una rubrica di racconti personali sulla transizione dall'accademia all'impresa, per sfatare il mito che il PhD sia un pesce buono solo per nuotare nell'habitat universitario: i dottori di ricerca sono anfibi e possono respirare fuori, sulla terraferma del mondo aziendale, proprio come respiravano dentro le acque della ricerca.

 

 

Sei un PhD che ha una Storia Anfibia da proporre per la pubblicazione?
CONTATTACI ai riferimenti che trovi nel menù principale, raccontandoci in poche righe qual è stato il tuo percorso di transizione.

12
Gennaio

Storie Anfibie

ANTONELLO FABIO CATERINO | Filologia

12 Gennaio 2021

Imprenditore e consulente

Antonello è dottore di ricerca in Scienze Retoriche presso l'Università della Calabria e Italianistica presso l'Université de Lausanne. Attualmente dirige il centro di ricerca “Lo Stilo di Fileta”, polo didattico dell'Università degli Studi eCampus, nonché il marchio editoriale a esso connesso. Svolge attività di ricerca presso l'Università del Molise e l'Alma Mater di Bologna. Imprenditore e consulente nel settore formativo, è manager didattico di Docety, socio e co-fondatore di Emme Studio, Molise Group e della Società Bibliofila Molisana.

 

Perché il dottorato e come è stato?

Un ragazzo di 23 anni, neolaureato magistrale, forse non si fa troppe domande in tal senso: avevo da sempre – forse dagli anni del liceo – desiderato diventare docente universitario, e conseguire un dottorato era indispensabile.
Non ho preso in considerazione, in effetti, nient'altro, dopo la laurea magistrale: mi sono buttato anima e corpo su quello che ritenevo l'unico mezzo di realizzazione professionale adatto a me. Non appena entrato in dottorato, mi sono subito attivato per una cotutela in modalità dual doctoral degree. Ho trascorso un periodo all'estero, iniziato a fare docenza, esami, ecc.
Il dottorato è stata un'esperienza molto formativa, che però ha immediatamente evidenziato una mia irrimediabile frattura con molte prassi accademiche italiane: dire di sì e tacere non è stato mai consono alla mia vocazione da ricercatore. Ciononostante, terminato il dottorato, ho iniziato a fruire di borse e assegni post dottorali, fino ad arrivare alla docenza a contratto. Il tutto – sottolineo – da non strutturato. Io ho sempre lavorato per soldi, cosa che ha infastidito non poco, specie i perbenisti che volevano sfruttare gratuitamente la mia professionalità e le mie competenze.
Ho guardato in faccia la realtà: una vita da non strutturato è economicamente insostenibile per un trentenne, oramai. Ho così deciso di applicare quanto appreso tra dottorato ed esperienze post dottorali anche al mondo dell'impresa, formativa e culturale. Perché in Italia il connubio tra humanae litterae e business è possibile: credetemi!


Perché hai lasciato l'accademia?

Io non ho mai abbandonato l'accademia: considero semplicemente ibrido il mio statuto professionale. Continuo a svolgere attività didattica e di ricerca presso più dipartimenti (a seconda delle occasioni che sopraggiungono), ma la mia fonte di guadagno reale e tangibile è legata all'imprenditoria, che ha saputo rispondere appieno al mio desiderio di sperimentazione. Faccio ricerca nel settore privato, ad esempio: dirigo un centro di ricerca e un marchio editoriale, sono nel consiglio di amministrazione di una neonata realtà multiservizio molisana, sono manager didattico, mi occupo di e-learning, formazione aziendale, consulenza, europrogettazione culturale e persino commercio d'arte e antiquariato.
Continuo a fare il mio lavoro, quello per cui mi sono formato così a lungo: lo faccio semplicemente su più versanti. Una cosa però si può dire che l'ho abbandonata: l'accademia come esclusività. Ho preso un'importante decisione: continuerò a fare sempre il docente universitario senza però morire asfissiato – e soprattutto di ristrettezze economiche – tra le mura degli atenei, rei di non avere abbastanza a cuore la sopravvivenza economica dei miei coetanei.


Com'è andata la fase di transizione?

Io l'ho vissuta forse peggio di come sia andata in realtà. Ci sono stati colleghi che hanno – e non posso negarlo! – cominciato a guardarmi peggio: avrei dovuto stare in fila e attendere il posto che non sarebbe arrivato mai; per un paio di decine di migliaia di euro l'anno avrei dovuto farmi in quattro tra esami, lezioni, pubblicazioni compulsive e viaggi incessanti solo per compiacerli?
Nelle facoltà umanistiche chi pensa al vil denaro e non dichiara costantemente di fare ricerca unicamente per passione diventa una pecora nera. Anche l'approdo al mondo imprenditoriale non è stato semplice: l'aura del teorico che sa ma non sa fare mi ha perseguitato per un po'. Ora è tutto stabilizzato: intrattengo collaborazioni accademiche solo con chi non intende l'università come ambiente asfissiante. In azienda, ho cominciato a relazionarmi con situazioni pratiche che hanno fatto automaticamente cadere quei pregiudizi, talvolta – lo confesso – fondati. Il centro di ricerca “Lo Stilo di Fileta”, che mi onoro di dirigere e che ho fondato, è un'eccellenza italiana nel campo dell'informatica umanistica. Tutto questo grazie alla mia storia anfibia, ibrida, e non certo ortodossa.


Che cosa hai imparato durante il dottorato che ti è utile oggi?

Tutto. Ogni nozione appresa durante la ricerca dottorale riesco ad applicarla anche nell'universo privato. Non essermi dovuto adattare a fare altri lavori, ma continuare a fare ciò per cui mi sono formato è un'ottima ricompensa a fronte delle innumerevoli difficoltà superate.
L'unico insegnamento che ho volutamente rifiutato è pensare a me in chiave integralista, ossia unicamente e univocamente da accademico. Il dottorato di ricerca è a mio avviso un trampolino di lancio che non dovrebbe proprio essere considerato come esclusivo di un ambito accademico. Le competenze acquisite possono, potrebbero o dovrebbero risultare utili anche al di fuori del macro-organismo universitario. Le aziende – ossia l'intero settore privato – potrebbe beneficiarne non poco. Con me è stato così. E ho trovato la prima forma “anfibia” nel mondo dell'editoria.
Portarmi dietro tutte le esperienze dottorali è stato fondamentale per farmi strada, dapprima come semplice redattore di collana, poi come direttore di collana, di area e poi direttamente editore a mia volta. Ma ciò è fondamentale – per quanto mi riguarda – anche nel mondo della formazione: spesso le persone vengono da me per chiedermi di aiutarli a applicare le competenze che hanno maturato nel loro percorso di studi. Io li aiuto proprio ricordando come a suo tempo io sia riuscito ad applicare la teoria alla pratica durante il dottorato.


Ti penti di qualcosa in relazione al dottorato e alle scelte successive?

No. Gli errori sono stati un momento di crescita professionale ed emotiva. “Perdono tutti, e a tutti chiedo perdono”, disse Cesare Pavese in punto di morte.
Diciamo che gli anni “esclusivamente” accademici sono stati per me fonte di indicibile instabilità emotiva. Potrei dire di essere pentito di non aver dato una svolta alla mia vita prima, iniziando a vedere l'università come una delle varie possibilità. Invece no: quel tipo di pressione mi ha insegnato a mantenere i nervi saldi, specie nel gioco imprenditoriale, in cui è importante riuscire non solo per portare la pagnotta a casa, ma anche per far sì che altri abbiano lo stesso diritto.


Quali consigli vorresti dare a chi sta affrontando il momento della transizione?

Il primo consiglio è non fare mai tagli netti nella vita: si può essere attivi su più fronti, e capire che l'arricchimento è sempre dietro l'angolo per chi lascia sempre uno spiraglio aperto.
Poi consiglio di non lasciarvi schiacciare dalla pressione sociale, di alcun tipo: il lavoro ottimale è ciò che rende appagati voi, non chi vi sta vicino! Guardarsi intorno, essere curiosi, considerare le proprie forze... questo: niente di più, niente di meno. I gesuiti solevano dire “non negare mai, afferma raramente, distingui con frequenza”. Ecco il mio grande consiglio: trattare in questo modo tutte le occasioni che vi si prospettano nella vita. Mai risposte affrettate, mai tagli netti. Prendetevi sempre il tempo per pensare con lucidità. Se qualcuno vi mette fretta, probabilmente è l'ultima persona per cui o con cui lavorare.