STORIE ANFIBIE

 

Una rubrica di racconti personali sulla transizione dall'accademia all'impresa, per sfatare il mito che il PhD sia un pesce buono solo per nuotare nell'habitat universitario: i dottori di ricerca sono anfibi e possono respirare fuori, sulla terraferma del mondo aziendale, proprio come respiravano dentro le acque della ricerca.

 

 

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08
Luglio

Storie Anfibie

SIMONE DE MEO | Immunologia

08 Luglio 2021

Data Manager

Nato a Roma, ha conseguito il dottorato in Scienze Immunologiche, Ematologiche e Reumatologiche con una tesi sulla difesa intracellulare all’infezione da Citomegalovirus umano. Nel 2020 inizia il master in “Gestione della sperimentazione clinica in ematologia ed oncologia” e contemporaneamente inizia a lavorare al di fuori dell’accademia nel ruolo di Study Coordinator per la Fondazione per la ricerca sui tumori dell’apparato muscoloscheletrico e rari, giovane realtà presente a Torino. Il suo ruolo è collaborare con i medici della Rete Oncologica Piemonte e del GIC Tumori rari e sarcomi per la gestione dei progetti di ricerca clinica attivi, di rilevanza nazionale e internazionale.

 

Perché il dottorato e come è stato?

Affascinato dalla conoscenza e dagli infiniti collegamenti che esistono nel mondo naturale. Questo è quello che ho sperimentato già prima di iniziare il mio percorso di studi universitario, durante la preparazione al test di ingresso della facoltà di Odontoiatria e collateralmente a quello della facoltà di Biologia. La fortuna ha voluto che tra i due incontrassi le scienze biologiche…ed è stato da subito feeling!
La chimica, la fisica, la biologia, l’istologia, la matematica, la botanica…così diversi tra loro, ma tutte che costituiscono l'ABC, l’alfabeto per saper leggere il “libro della natura”. Seguendo questa curiosità, ho iniziato via via ad accostarmi sempre di più alle scienze biomediche e alla biologia dei tumori, ma anche con la curiosità e la voglia di espandere le mie conoscenze e abilità in terreni per me familiari ma inesplorati: per questo la scelta di intraprendere il dottorato in un laboratorio di Immunologia, studiando la risposta ai virus.
Cosa mi avrebbe riservato? Il dottorato è un duro banco di prova, in cui si è ancora studenti ma si inizia a diventare lavoratori, si è dipendenti dal proprio supervisore ma servono spirito di iniziativa e indipendenza per saper condurre gli esperimenti ed elaborare i risultati. È come una pentola che in cui bollono tantissime cose… e si deve imparare a gestirle!
Ho vissuto un ambiente molto bello soprattutto per le interazioni con i miei pari, gli altri dottorandi del laboratorio, tutti giovani/issimi, con i quali è nata una grande complicità, amicizia e voglia di aiutarsi a vicenda, che tra le tante cose mi hanno insegnato l’importanza di fare rete. Penso che questo sia stato l’ingrediente segreto che mi ha sostenuto nelle molte difficoltà che si incontrano (e ho incontrato) nel percorso di dottorato.


Perché hai lasciato l'accademia?

Il percorso accademico, così come è istituzionalizzato, non ha mai realmente incontrato i miei desideri, per molte ragioni… Non mi sono mai visto nel futuro come ricercatore e professore universitario, anche se mi piace tantissimo il metodo scientifico non solo come strumento di ricerca ma proprio come way of thinking, per trasmettere le conoscenze acquisite ed essere di supporto a chi vuole imparare!
Ho sempre visto il dottorato non come primo gradino verso la carriera accademica, ma come ultimo gradino nella scala di acquisizione di conoscenze e abilità principali e secondarie, le cosiddette hard e soft skills. Quindi per me l’uscita dall’accademia è un qualcosa che già avevo previsto nel mio percorso personale e professionale, ma questo non l’ha reso certamente più semplice.

Com'è andata la fase di transizione?

Alla fine, è andata bene! È stata difficile, abbastanza sofferta, resa più complicata dall’incertezza sul futuro, in quanto concomitante con la recente storia pandemica. È stata sofferta non tanto per il distacco dal mondo accademico, che come detto era nelle mie previsioni, quanto per l’aver vissuto in prima persona le difficoltà nella ricerca del lavoro e soprattutto i pregiudizi che intercorrono vicendevolmente tra chi è dentro e chi è fuori dal mondo accademico, che necessariamente entrano in gioco nella transizione.
Ho risposto agli annunci di lavoro più disparati, ho valutato tutte le strade, sostenuto colloqui che non sono andati a buon fine ma che mi hanno dato comunque un insegnamento. Fino a che, parlando con amici e conoscenti, sono rimasto affascinato dal mondo della ricerca clinica e dalla figura del Data Manager (o Study Coordinator o coordinatore di ricerca clinica), che ho visto da subito nelle mie corde per il contesto di lavoro ospedaliero (essendo figlio di infermieri mi è sempre stato molto familiare) e per le caratteristiche richieste, senza contare l'incontro con la Fondazione per la ricerca sui tumori dell’apparato muscoloscheletrico e rari e le persone che operano in essa, che ha da subito creduto nel mio percorso e su quanto potessi offrire.


Com'è la giornata tipo nel tuo lavoro di oggi e a chi lo consiglieresti?

Il mio lavoro inizia nel mio ufficio, innanzitutto con la consultazione della casella e-mail di lavoro, per rimanere aggiornato su richieste, attività urgenti e non e prossimi appuntamenti programmati/da programmare. In generale coadiuvo le attività della Rete Oncologica Piemonte, nello specifico del gruppo multidisciplinare di cura dei sarcomi dell’osso e delle parti molli, che è sia responsabile principale che collaboratore in progetti di ricerca clinica locali, nazionali e internazionali che per essere condotti hanno bisogno di tante attività di programmazione, gestione dei documenti e dei dati, controllo attivo delle visite di follow-up dei pazienti e comunicazione con i medici responsabili, il Comitato Etico e i monitor delle aziende sponsor.
Per il gruppo interdisciplinare inoltre gestisco un database operativo dei casi discussi in forma collegiale, che diventa di fondamentale importanza per la formulazione di ipotesi e la progettazione di lavori di ricerca. È un lavoro che consiglierei a chiunque abbia capacità organizzative, sia curioso, abbia voglia di imparare, sia preciso, “pulito” e rispettoso nella gestione dei dati e delle informazioni che riguardano i pazienti e abbia anche la sensibilità per interagire con i pazienti stessi e i loro familiari, così come lo sono i medici e gli infermieri che li seguono da un punto di vista clinico, assistenziale e umano.


Che cosa hai imparato durante il dottorato che ti è utile oggi?

Sicuramente il metodo scientifico, che ti “obbliga” severamente e positivamente a guardare a tutto quello che fai innanzitutto con spirito positivamente critico e autocritico, raccogliendo e gestendo le informazioni, la documentazione e qualunque dato clinico con cognizione di causa, a volte anche grazie all’apprendimento legato all’errore!
Ho imparato sicuramente a gestire lo stress, fare rete, capire come funziona la ricerca nei suoi aspetti più pratici e quali sono i momenti chiave della ricerca stessa. Ho imparato a interagire con tante persone in un ambiente di lavoro molto attivo, dinamico e ricco di competenze multidisciplinari che lavorano di concerto per il benessere del paziente.


Ti penti di qualcosa in relazione al dottorato e alle scelte successive?

Con il senno del poi, mi pento solamente di non aver fatto un’esperienza di ricerca all’estero, che mi avrebbe sicuramente insegnato qualcosa in più, ma sono sempre contento e soddisfatto delle mie scelte.
Nel dottorato ho vissuto il periodo di “gavetta” e ora mi sento veramente un lavoratore, attivo e responsabile, aderente con fierezza alla mission della Fondazione, per la quale la conduzione della ricerca clinica risponde al bisogno di migliorare costantemente il percorso di cura e l’outcome clinico del paziente.


Quali consigli vorresti dare a chi sta affrontando il momento della transizione?

Studiare, motivarsi e guardarsi dentro. Sono necessari per informarsi del mondo che ci circonda al di fuori dell’accademia, per non farsi ostacolare dalle difficoltà e capire cosa veramente si cerca nella transizione e dove si vuole arrivare, per sentirsi soddisfatti e in linea con i propri desideri e preferenze.